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- Data di Pubblicazione 09/09/2021
- Ultimo aggiornamento 30/09/2021
Il progetto Zei oltre il biologico. Intervista all’agronomo Alessandro Leoni
La ricerca enologica, come accade in molti altri settori, oggi mira ad elaborare pratiche e tecniche che abbiano il minor impatto sull’ambiente, per preservare la salubrità della terra, della vite e dell’uva, aumentare la qualità del vino e, dunque, tutelare la salute del consumatore di oggi e di domani e la godibilità del buon bere. Tra le sperimentazioni più recenti nel campo della viticoltura merita particolare attenzione il Progetto ZEI, acronimo di Zero Environmental Impact (tradotto: Impatto Ambientale Zero), sviluppato da un gruppo di ricerca dell’Università della Tuscia e condotto dal Dott. Alessandro Leoni, agronomo, consulente di numerose aziende di tutto il Belpaese e produttore in Umbria.
Intervista integrale all'agronomo Leoni pubblicata in forma ridotta sul nr 3/2021 de Il Sommelier
Cos’è e come nasce il Progetto ZEI?
L’idea è nata approfondendo alcune vie biosintetiche che interessano l’accumulo di composti polifenolici nei tessuti della pianta: alcune di queste molecole, quali l’acido salicilico (un potente antimicrobico naturale) e l’etilene, sono anche ormoni interessati dal metabolismo prodotto da alcuni induttori di resistenza. Da lì, ci siamo poi addentrati nel mondo degli estratti vegetali, che è estremamente affascinante e versatile, ponendoci l’obiettivo di formulare un composto naturale che potesse difendere la vite utilizzando molecole prodotte da altre piante o microorganismi e, come finalità ultima, esaltare la funzione elicitoria, atta ad incrementare il livello di polifenoli o sostanze aromatiche nelle bucce delle uve. Tutto il progetto è stato portato avanti con il Prof. Marco Esti, docente di Enologia all’Università degli Studi della Tuscia ed il suo staff di ricerca, con cui abbiamo sviluppato il progetto prima in vigna e poi in cantina.
Quali sono i risultati finora raggiunti dalla sperimentazione?
Dopo due anni di sperimentazione su piccoli appezzamenti o addirittura su porzioni di filare, gli estratti puri provati sono stati più di quaranta e le miscele di estratti esaminate sono state più di sedici. Siamo, così, arrivati a due formulati che riescono a proteggere la pianta dai due principali target di patogeni della vite quali oidio e peronospora,oltre a rilevare una funzione elicitoria nei confronti di flavonoidi e terpeni. Quest’anno il piano di attività del progetto ZEI ha previsto campi sperimentali per oltre 70 ettari in Oltrepò Pavese, Toscana, Umbria, Lazio, Campania, Puglia, su varietà autoctone ed internazionali, per valutare la risposta ambientale e varietale. I risultati sono stati gli stessi in tutti gli ambiti territoriali considerati, con effetti analoghi e, talvolta, migliori dei controlli sui vigneti trattati con prodotti di sintesi o in biologico.
Eccoci al punto! Quali sono i vantaggi rispetto all’utilizzo dei prodotti di sintesi e di quelli utilizzati per le culture biologiche?
La legislazione che regolamenta gli agrofarmaci è complessa (al pari di quella dei farmaci) e, giustamente, ricca di vincoli ed obblighi per via della pericolosità, sia in tema ambientale che salutistico, delle molecole utilizzate come presidi fitosanitari. Si tratta, infatti, di sostanze che, se erroneamente impiegate (ad esempio, non rispettando i periodi di carenza), possono arrivare sulle nostre tavole, creando non pochi problemi a breve e lungo termine. Oltre a ciò, va considerato il tema, di grande attualità, della salute e della sicurezza sul lavoro del personale aziendale addetto all’uso di queste sostanze di sintesi che, in alcuni periodi dell’anno, avviene quasi quotidianamente. Gli operatori ne sono, infatti, esposti sia durante l’esecuzione dei trattamenti fitosanitari, sia in occasione delle operazioni, in campo aperto, di sistemazione della vegetazione o di selezione manuale (selezione dei germogli, defogliazione, etc.), venendo a contatto e manipolando le parti verdi della pianta. In proposito il progetto ZEI offre una promettente alternativa. Anche se, attenendosi alla normativa, allo stato attuale non possono essere definiti prodotti di difesa o curativi, gli estratti testati, alla stregua degli altri corroboranti (n.d.r. sostanze di origine naturale, diverse dai fertilizzanti, prive di potenziale pericolosità), hanno dimostrato di svolgere quella funzione nei confronti del patogeno, impedendone lo sviluppo e/o la riproduzione e, come effetto secondario, di stimolare la pianta a difendersi dai patogeni tramite l’induzione di molecole attive che essa stessa è in grado di produrre (fitoalessine e proteine patogeno-attive). A questo punto possono essere ribaltati anche alcuni dei più grandi dogmi che sostengono le certificazioni Bio, se la definizione di biologico è fare agricoltura senza prodotti di sintesi, ma poi si utilizza il rame che è un metallo pesante che si accumula nel terreno senza essere smaltito, o nel fegato causando gravi patologie. Immaginate, pertanto, i vantaggi di trattare la vite con estratti di origine naturale, senza residui, senza rischi tossicologici per gli operatori e, oltremodo, potenziando qualitativamente le caratteristiche delle nostre uve.
Nella lotta sostenibile alle numerose patologie che affliggono la vite, negli ultimi tempi si sta sperimentando anche in Italia l’introduzione dei cc.dd. PIWI (acronimo del termine tedesco Pilzwiderstandfähig, ossia resistente alle crittogame), vitigni derivanti da incroci tra Vitis vinifera e Vitis labrusca o riparia resistenti ad alcune malattie fungine. Ritieni che anche questa possa essere una strada percorribile oppure ci sono altre soluzioni da valutare per garantire la sostenibilità ambientale della viticoltura?
In Italia abbiamo il più grande patrimonio ampelografico al Mondo, possediamo il 25% circa delle varietà censite a livello globale. Ci sono varietà autoctone che oggi, grazie al cambiamento climatico e alla competenza dei tecnici di cantina, possono dare vini di altissimo pregio, al pari se non migliori di quelli derivanti dai vitigni internazionali, che sono stati spesso sotto i riflettori per aver reso atipici territori dalla forte vocazione enologica. I PIWI, a questo punto, incrementerebbero solo la grande famiglia degli internazionali, e sono vitigni il cui obiettivo principale nella loro creazione era ed è la resistenza alle crittogame, solo in seconda battuta il profilo olfattivo, la territorialità, la fedeltà al vitigno genitore. Questo sentimento di mancanza di tipicità e di confusione del consumatore è stato appoggiato anche dal gruppo di genetisti mondiale dell’OIV (n.d.r. Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino) che di comune accordo hanno approvato che eventuali Piwi, figli di ibridazioni di vitigni autoctoni, non possono portare il nome del vitigno di provenienza ma possono solo avere un nome di fantasia.
Quindi quale impatto pensi possano avere i vitigni resistenti sulla tipicità delle nostre cultivar?
Aprendo un focus sulla tipicità, dei vitigni resistenti va sicuramente detto che: per i vitigni aromatici, che hanno un quadro olfattivo dominato da molecole aromatiche specifiche (tioli, terpeni, norisoprenoidi), tipo Sauvignon, Moscato, Traminer e Riesling, grossi problemi di modificazioni del quadro olfattivo varietale sono molto difficili da rilevare; mentre per i vitigni cosiddetti “neutri” potrebbero verificarsi modifiche significative del quadro olfattivo tipico con correlata mancanza di tipicità. Pertanto, per questi vitigni sono necessari approfonditi studi multidisciplinari tesi a valutare in modo rigoroso il rispetto dei caratteri di tipicità sensoriale del “genitore”. In poche parole, le conoscenze consolidate, che sono pertinenti e condivise per i vitigni autoctoni, sono, al contrario, assolutamente carenti e rappresentano il vero limite della possibile affermazione o insuccesso dei nuovi vitigni. La mia non vuole essere una “medioevale caccia alle streghe”, ma penso stiamo parlando di problemi tangibili e condivisi da tutti i tecnici del settore. Mi dilungo facendo un esempio banale ma che ci farà sensibilizzare al problema: in un trentennio di lavoro siamo riusciti a selezionare circa 130 cloni di Sangiovese, oggi solo circa 30 sono quelli di maggiore interesse enologico in Toscana, e sono diversi da quelli che si utilizzavano 10 anni fa. Se il ricambio clonale di varietà autoctone è così rapido (pur richiedendo un lavoro a monte lungo e certosino) per stare dietro al climate change ed a finalità enologico-commerciali diverse, immaginate che avere un solo o una decina di “Cloni Piwi Sangiovese” significa tornare agli anni ‘70. Diversamente, se si parla di cis-genesi (tecnica di manipolazione genetica basata sul trasferimento di uno o più geni di un individuo di una determinata specie nel genoma di un individuo della stessa specie) le cose cambiano: l’idea di avere un super-clone resistente è allettante, ma attualmente il tema è fermo ai laboratori universitari.
In conclusione, qual è la direzione da percorrere per rendere la viticoltura realmente sostenibile?
Fare agricoltura senza prodotti di sintesi, senza impatto ambientale, con particolare attenzione alla salute dell’operatore e del consumatore, senza alterare il prezioso patrimonio ampelografico italiano e, allo stesso tempo, migliorando l’obiettivo enologico-tecnologico. Mi sembra un’ottima Dottrina viti-enologica da tramandare ai nostri figli. E il Progetto ZEI va esattamente in questa direzione.