Daniele Ognibene
Nel poema di Gilgamesh, noto testo sumerico del II millennio a.C., il passaggio dallo stato selvatico dell’uomo a quello civilizzato coincide a quando egli comincia a consumare il pane e il vino. Due alimenti artificiali, frutto del suo ingegno e della sua capacità di piegare la natura ai propri bisogni. Quattro millenni dopo, a pensarci bene, è avvenuta un’inversione di tendenza: l’artificio non è più visto come un balzo verso la civiltà, ma è divenuto sinonimo di contraffazione e di snaturamento dei prodotti. I cosiddetti “vini naturali” ne sono un chiaro esempio: a uno dei prodotti artificiali più importanti per la storia dell’uomo, viene affiancato un aggettivo che logicamente non può appartenergli, poiché il vino non cresce in natura, ma è il risultato di una lavorazione industriale dell’uomo, il quale ha sempre rielaborato ciò che la terra offre per creare prodotti non solo buoni, ma anche durevoli, capaci di resistere al naturale – questo sì – decadimento a cui sono destinati. Queste problematiche sono alla base delle varie tecniche di alterazione del mosto e del vino di cui la storia ci conserva tante preziose testimonianze.
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