Daniele Ognibene
Nel poema di Gilgamesh, noto testo sumerico del II millennio a.C., il passaggio dallo stato selvatico dell’uomo a quello civilizzato coincide a quando egli comincia a consumare il pane e il vino. Due alimenti artificiali, frutto del suo ingegno e della sua capacità di piegare la natura ai propri bisogni. Quattro millenni dopo, a pensarci bene, è avvenuta un’inversione di tendenza: l’artificio non è più visto come un balzo verso la civiltà, ma è divenuto sinonimo di contraffazione e di snaturamento dei prodotti. I cosiddetti “vini naturali” ne sono un chiaro esempio: a uno dei prodotti artificiali più importanti per la storia dell’uomo, viene affiancato un aggettivo che logicamente non può appartenergli, poiché il vino non cresce in natura, ma è il risultato di una lavorazione industriale dell’uomo, il quale ha sempre rielaborato ciò che la terra offre per creare prodotti non solo buoni, ma anche durevoli, capaci di resistere al naturale – questo sì – decadimento a cui sono destinati. Queste problematiche sono alla base delle varie tecniche di alterazione del mosto e del vino di cui la storia ci conserva tante preziose testimonianze.
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Nel noto Tractatus dell’agronomo bolognese Pier de’ Crescenzi (XIV sec.), il paragrafo intitolato In che modo si può provvedere, che ’l vino non si volga, ovvero che non si guasti, la lista di prodotti da mettere nel vino è davvero curiosa: gesso, fieno greco, sale arso, galla, argilla e l’allume sono solo alcuni degli artifici consigliati per evitare che il vino deperisse. Altroché la solforosa! Se quindi si vuole interrogare la storia, alla ricerca di un’aurea aetas in cui l’uomo viveva in simbiosi con la natura e non interveniva artificialmente per modificarne i prodotti, si resterà tristemente delusi. Eppure, il seducente richiamo di una primordiale età dell’oro permane, ci tormenta: la ricerca della “naturalità” è una potenziale risposta a questo ancestrale desiderio, purché la si affronti consapevolmente, liberi sia dalla fazione dei detrattori che da quella dei ciechi idealisti e facendo affidamento ad un’informazione seria, una divulgazione storica coerente, realizzata da storici e non da qualche amatore. Lasciare la parola agli esperti non genera “pericolosi silenzi”, né “censure”, come spesso si sente dire, ma crea il giusto clima per poter ascoltare e quindi capire.
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