Marco Barbetti
Chiunque visiti la Liguria, percorrendone l’arteria che costeggia il mare, riesce a intuire subito la peculiarità della regione: una lunga lingua di terra stretta tra il mare e i monti che la sovrastano interamente. In questo impervio contesto dove si passa senza preavviso dal blu scintillante dell’acqua al verde smeraldo della montagna, intrisa degli intensi profumi della macchia mediterranea, si trova una delle più belle perle paesaggistiche italiane, inserita nel 1997 nella “World Heritage list” dell’Unesco, le Cinque Terre.
Monterosso, Vernazza, Corniglia, Manarola e Riomaggiore: cinque borghi bellissimi, incastonati tra ripidi pendii a picco sul mare e separati dai tradizionali terrazzamenti. Adottati a partire dall’anno mille, questi ultimi sono l’unica soluzione per ottenere del terreno coltivabile. Per creare il piano si scava il crinale della montagna per poi riempirlo con terra di riporto debitamente setacciata. Per dare sostegno alla struttura vengono utilizzate pietre di arenaria che ne delimitano il perimetro. Su questi fazzoletti, rubati con fatica alla montagna, ha sede la viticoltura locale che, visto il contesto in cui si pratica e le modalità di esecuzione, non può che essere definita eroica.
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Essere vignaioli nelle Cinque Terre significa fare enormi sacrifici per pura passione del vino. Ogni operazione è svolta manualmente senza possibilità alcuna di meccanizzare i processi. La tecnologia più avanzata che si possa sperare di utilizzare, se il terreno lo consente, consiste in delle piccole monorotaie per il trasporto dell’uva in cantina, ma spesso non è possibile neppure quella. Le vigne sono in costante pericolo, minacciate dalle improvvise mareggiate, da forti raffiche di vento oppure dal cedimento dei muretti a secco.
Per la grande difficoltà nel gestire l’attività, a partire dagli anni ’60 e fino agli anni ’90, le Cinque Terre sono state interessate da un progressivo e continuo abbandono da parte dei viticoltori che ha contribuito a peggiorarne lo stato generale. Solo dopo gli inizi degli anni ‘90 si è potuto assistere a una graduale riappacificazione tra uomo e territorio con il lavoro di pochi giovani produttori che hanno dato nuovo impulso alla viticoltura locale su un’area che conta in totale circa 57,74 ettari (fonte AGEA 2019).
Le Cinque Terre, così come il resto della Liguria, sono sempre state luogo di importanti scambi commerciali e culturali e questo ha permesso di sviluppare un ricco panorama ampelografico. Nel 1500 a fianco dei vitigni Brujapajà, Scimiscià e Squarciafoglia, il Lancerio e il Bacci celebravano il vino Rossese bianco, fatto probabilmente con uve Ruzzese. Oggi nella stessa area i protagonisti sono invece il Vermentino, il Bosco e l’Albarola, che dal 1973, costituiscono la base ampelografica della Doc Cinque Terre e Cinque Terre Sciacchetrà.
Il Cinque Terre Doc è un vino bianco secco, caratterizzato da colori tenui, spesso accompagnati da riflessi verdolini, con profumi delicati floreali, di frutta bianca e accenni a note iodate. Assaggiandolo denota un’acidità non eccessivamente elevata ma sempre supportata da una bella sapidità. Il gioiello della Denominazione rimane però sicuramente lo Sciacchetrà. Elogiato anche da Gabriele D’annunzio, questo vino passito deve il nome ad un altro artista, il pittore Telemaco Signorini che a fine del milleottocento lo battezzò per primo in questo modo. A differenza della versione secca, questo vino era prodotto soprattutto per gli eventi speciali come battesimi o matrimoni. L’appassimento parziale delle uve avviene dopo la vendemmia in fruttai o all’aperto, fino almeno al primo novembre dell’anno di vendemmia. Dopo la vinificazione viene affinato in acciaio o in legno per poi essere messo in commercio dopo il 1° novembre del terzo anno successivo a quello di vendemmia.
In degustazione lo Sciacchetrà ha un colore giallo-ambrato, con sentori di miele e frutta matura, in particolare albicocche. In bocca è molto morbido con la dolcezza armonizzata dall’acidità e un finale persistente e leggermente amaricante. Le Cinque Terre sono un esempio lampante dove suolo, clima, biodiversità ampelografica e intervento umano interagiscono in maniera straordinaria, dando vita ad un terroir unico da preservare e perpetrare, in grado di donare eccellenti vini.
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Il Cinque Terre DOC da sempre scorre sulle tavole dei liguri e per via delle sue caratteristiche, può essere abbinato facilmente a molti piatti più o meno tipici della tradizione, trovando la sua collocazione dall’antipasto al secondo. La classica farinata di ceci, per esempio, si vede accompagnata benissimo con questo vino, ma anche con la pasta alle alici o con il pesce spada all’uccelletto. Anche il formaggio trova spazio nell’abbinamento, in particolar modo il San Stè stagionato 60 giorni, prodotto con latte vaccino crudo intero. Il Cinque Terre Sciacchetrà trova ampi spazi negli abbinamenti con dolci nazionali e internazionali. Un consiglio è quello di provarlo con il Pandolce genovese basso, preparato nel periodo Natalizio, è un prodotto a pasta lievitata con uvette, cedro candito, molto simile al panettone.[/su_box]
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