Ci sono voluti quindi quasi 1.500 anni per arrivare alle tipologie di Pinot nero che vengono coltivate attualmente nei nostri vigneti
Columella, nella sua opera “De Re Rustica” descrive un vitigno selezionato dai Celti di Allobrogia, a foglie rotondeggianti, che sopporta il freddo, il cui vino si conserva con l’invecchiamento e che ama i terreni magri per la sua elevata fertilità.
Non è difficile riconoscere nella descrizione del georgico latino e nei tratti morfologici del Pinot nero attuale, i molti caratteri comuni alle viti selvatiche ancora presenti nell’isola di Ketsch sul Reno.
Queste analogie non erano sfuggite agli ampelografi tedeschi dell’800, che avevano identificato in queste viti appese agli alberi, per la forma rotondeggiante della foglia, le ridotte dimensioni delle bacche e dei grappoli, i semi senza becco, gli ancestrali del Pinot nero. Ma era stato quel sapore particolare di lampone e di fragola del mosto, che lo fa avvicinare a quello di alcune viti americane, a suscitare interrogativi e dubbi. Questi sono stati chiariti solo recentemente attraverso l’analisi del DNA che ha individuato nel Pinot nero i geni che codificano per gli esteri antranilici, responsabili del sapore foxy, anche se nel Pinot sono sotto espressi e quindi la loro presenza è molto ridotta.
LE ORIGINI. Probabilmente la proto-coltivazione del Pinot può essere fatta risalire al III-IV secolo dopo Cristo, come appare da un documento di ringraziamento all’imperatore Costantino del 312, da parte degli abitanti della città di Autun, dove viene citato un vigneto famoso per la sua qualità, nel pagus Arebrignus, nella Cote de Nuits. Tralasciando la dotta dissertazione con la quale Gaston Roupnel nel 1932 descrive il paesaggio rurale della Borgogna durante la presenza romana, alcuni particolari delle modalità di coltivazione di quel vigneto ci aiutano a risalire alle varietà coltivate, che come era consuetudine allora, non venivano mai citate. Il termine cepage con il quale si nomina il vitigno in francese deriva da cep, ceppo, pianta, indicazione generica di una vite.
Il vigneto aveva caratteristiche molto diverse da quelle che conosciamo oggi. Dava l’impressione di essere abbandonato, tale era l’aspetto di una inestricabile vegetazione costituita da piante molto vecchie disposte senza alcun ordine e moltiplicate per propaggine. Non è difficile riconoscere in questa descrizione un esempio singolare di viticoltura detta “per protezione”, dove le viti selvatiche nate spontaneamente in luoghi selvaggi venivano sottoposte ai primi processi di domesticazione. Questa viticoltura caratterizzava il medio bacino del Reno, l’Alsazia ed il Baden, patria di origine di una famiglia varietale che Levadoux, famoso ampelografo francese della prima metà del ‘900, definiva dei “Noirien”.
Ma la storia della rinascita della viticoltura francese inizia circa cinquanta anni prima del documento di ringraziamento a Costantino, con la ricostruzione operata da Probo e con l’introduzione da parte delle sue legioni di nuovi vitigni da oriente, dalla Pannonia e dalla Croazia.
Questi vecchi vigneti semiabbandonati della Borgogna vengono allora rivitalizzati non con lo spianto delle vecchie viti, ma attraverso l’impianto di nuove talee di varietà chiamate genericamente a causa della loro origine, Heunisch (da Hunnisch, unni, dal nome degli abitanti di quelle regioni ad est della Pannonia).
In Francia l’Heunisch è chiamato Gouias ed in Svizzera Gwass, con la stessa fonetica sgradevole.
GLI ORDINI MONASTICI. Alla caduta dell’Impero Romano segue un periodo di decadenza economica e politica e solo con il governo dei Franchi e di Carlo Magno, che assegna le terre coltivabili e da bonificare agli ordini monastici, benedettini e certosini in primis, si assiste al recupero dei vecchi vigneti ed alla creazione di nuovi con il materiale genetico che si era originato spontaneamente da seme.
In particolare, il convento di Beze nel VII secolo e quelli certosini nel XII hanno avuto un ruolo determinante nella creazione dei vigneti pionieri su suoli di diversa fertilità.
Questa accelerazione nei processi di selezione dei semenzali per opera degli ordini religiosi individua una popolazione di individui chiamati nei documenti del XII-XIII secolo con il nome generico di plant, che veniva aggettivato con il nome della sua provenienza geografica con “auvernat” o “orleanais”.
Più tardi anche con il nome di “Pineau”. Il termine plant fu usato sia in Borgogna che in Champagne fino alla ricostruzione postfillosserica e la distinzione tra le diverse tipologie varietale era fatta in base al colore dei tralci: Plant gris con grappoli piccoli a maturazione tardiva che davano un vino non di grande qualità e Plant dorè a foglie intere, di buona produzione ma che a causa della precocità di maturazione forniva vini migliori. L’opera dei monaci nella selezione e diffusione del nuovo vitigno nato per caso è quindi provvidenziale ed il Pinot nero, sebbene con altri nomi, vede finalmente la luce. La viticoltura episcopale ed ecclesiastica medioevale estende la coltivazione del Pinot nero al di fuori dei clos conventuali ed i Duchi di Borgogna, in particolare Filippo l’Ardito e Filippo il Buono tra il XIV e XV secolo lo proteggono dalla concorrenza “sleale “del Gamay.
IL XIV SECOLO. In questo secolo compare il termine di “Pynos” usato da E. Deschamps nella ballata della “Verdure des Vins” e poco tempo dopo in uno scritto borgognone si parla di Pinoz al plurale, per indicare la grande famiglia varietale. Da allora le citazioni si moltiplicano e Champagne e Borgogna si contendono il luogo di origine del vitigno.
L’OTTOCENTO. L’Ottocento con lo sviluppo degli studi ampelografici, mette in evidenza una caratteristica originale di questo vitigno: la sua grande variabilità intravarietale che consente di identificare e descrivere più di cinquanta tipologie di Pinots, differenti per la morfologia fogliare, per colore della bacca, del succo, della produttività, della precocità e per il nome del selezionatore.
Come in un libro di storia, dove fantasia e realtà si mescolano senza possibilità di essere distinte, con un salto di quasi duemila anni, si giunge ai nostri giorni e con l’apporto della genetica molecolare, attraverso l’analisi del DNA, si scoprono non solo le origini ma anche il contributo che il Pinot nero ha avuto nella creazione di altri vitigni europei. Infatti il Pinot nero è il risultato di un incrocio spontaneo tra il Traminer (noto in passato con il nome di Savagnin) ed un Pinot ancestrale. Il Pinot quindi, messo a contatto con queste varietà provenienti da oriente, ha dato origine allo Chardonnay e con lui altri quindici vitigni della regione borgognona tra quali i più importanti sono il Melon ed i Gamay.
Tracce genetiche di Pinot sono riscontrabili anche nello Syrah, nel Marzemino, nel Lagrein, nel Teroldego.
Per comprendere il ruolo che ha avuto il Pinot nella formazione di molti vitigni europei, molto interessante appare uno studio condotto nel 2004 in otto vigneti storici vicini al Heidelberg, in Germania, che presentavano viti dall’età variante tra 60 e 200 anni e che raccoglievano più di 60 varietà delle quali alcune molto rare.
Vicino a vitigni come l’Honigler ungherese, il Primitivo italiano, l’Elbling bleu (incrocio tra Schiava e Riesling) sono stati identificati molti vitigni senza un nome, tutti frutto di un incrocio con il Pinot.
Per la sua ampia diffusione sia in Francia che all’estero assume molte denominazioni come Morillon nei dintorni di Parigi, Burgunder e Clevner in Germania, Borgogna in Italia.
IL PINOT NERO CHE CONOSCIAMO OGGI NON È PERÒ QUELLO DELLE ORIGINI. Le forme primitive, anteriori al X sec., erano poco produttive e venivano chiamate Noble de Touraine e Salvagnin noir del Jura (è evidente il richiamo alla tipologia morfologica del Traminer). Con lo sviluppo della viticoltura mercantile avvenuto verso il 1700, dopo la piccola glaciazione, vengono selezionate forme più produttive e con maggior ricchezza di colore chiamate Auvernal, Cortalloid (con il richiamo semantico allo Chardonnay).
Solo nel XVIII e XIX secolo in Borgogna prima ed in Champagne poi compaiono le tipologie che conosciamo oggi e che vengono classificate in vari gruppi alle soglie dell’arrivo della fillossera:
- gruppo dei Pinots neri cosiddetti tipo
- gruppo dei mutanti cromatici (grigio o Rulaender, bianco, tete de negre, teinturier, ecct)
- gruppo delle selezioni fatte dai viticoltori (Liebault, Giboudot, de la Malle, Crepet, ect)
- gruppo dei Pinots espressione di luoghi di selezione e coltivazione (d’Ervelon, Trepail, du Valais, Mariafeld, Waedensvil, ect)
- gruppo dei Pinots dalla particolare caratteristica morfologica (cioutat, a limbe cotonneaux, cendre, double, meunier, ect)
- gruppo dei Pinots precoci ottenuti da seme per autofecondazione.
In Champagne fino al secolo scorso il Pinot era chiamato Vert dorè o Plant dorè dal colore degli apici e dei germogli giovani.
Ci sono voluti quindi quasi 1.500 anni per arrivare alle tipologie di Pinot nero che vengono coltivate attualmente nei nostri vigneti. Come diceva J. Guyot riferendosi alla selezione del Pinot nero: “La religione del vitigno ha preceduto quella del cru.”
STORIA DEL PINOT NERO IN ITALIA
In Italia e nel Tirolo meridionale, l’Istituto Agrario di S. Michele lo introduce nei suoi vigneti nella seconda metà dell’800 ma malgrado la sua elevata capacità di accumulare zuccheri, non ha una grande diffusione presso i viticoltori, per la precocità di maturazione, troppo distante da quella delle altre varietà allora coltivate, ma soprattutto per la produttività incostante. Anche la sua vinificazione non era scevra da inconvenienti.
In Italia malgrado sia un vitigno più adatto alle regioni temperato-fresche, ha avuto una diffusione lungo tutta la Penisola fino alla Sicilia a partire dalla fine del 1800, in coincidenza della ricostruzione post fillosserica per la sua produttività e per l’elevato tenore zuccherino. La valutazione delle sue doti enologiche fu sempre molto sommaria perché di norma veniva vinificato assieme ad altre varietà ed a causa delle sue precocità di maturazione nelle regioni meridionali o comunque negli ambienti più caldi, maturava troppo velocemente e subiva l’assalto degli uccelli o quello del marciume grigio. Inoltre, la sua produttività appariva molto inferiore a quella dei vitigni italiani in un periodo dove prevaleva la cultura della produzione su quella della qualità.
Per questi motivi la sua diffusione nel nostro Paese subisce una drammatica contrazione tra le due Guerre e la sua coltivazione si attesta solo in Oltrepò pavese, in Trentino-Alto Adige e marginalmente in Friuli e Veneto orientale.
Degna di nota per l’eccellenza della qualità, è una piccola produzione nel pescarese, retaggio della presenza bonpartista nelle Marche.
L’Oltrepò pavese rappresenta oggi la zona italiana che presenta la maggiore superficie di Pinot nero, con circa 2.000 Ha, ma che lo vinifica soprattutto in bianco per la presa di spuma.
I tenori elevati di argilla accompagnati da buone presenze di calcare attivo e le quote altimetriche dei vigneti, sono alla base della produzione di vini-base con buona freschezza, pH bassi e profumi eleganti
Il clima temperato del Trentino –Alto Adige, simile in alcuni meso climi (esposizione ad Ovest, altitudini 300-400 mslm, presenza di brezze di monte che consentono buoni sbalzi termici tra giorno e notte, ect), a quello più continentale della Borgogna, consente una produzione di Pinot neri vinificati in rosso comparabile per complessità e finezza a quella francese. Purtroppo, mancano quei tenori di argilla che fanno di quei vini dei modelli irraggiungibili.
Bellissimo srticolo: interessante, chiaro, divulgativo.
Segnalo un piccolo refuso.
Essendo della provincia di Pescara, quando ho letto che c’era una piccola zona di antica diffusione, ho drizzato le antenne, per capire a cosa ci si riferisse.
Poi, peró, purtroppo, leggendo regione Marche ho capito che si fa riferimento al Pinot nero di Focara.
Quindi, pesarese e non pescarese