DI REGIONE IN REGIONE SECONDA PARTE. LA VITICOLTURA EROICA NEL SUD D’ITALIA

Ugo Baldassarre

Nell’immaginario comune la viticoltura eroica si associa a impervi pendii di montagna, a terrazzamenti a picco su laghi incastonati tra le Alpi, alle anguste pergole sulle topie, a delle vere e proprie Rupi del vino o alle impraticabili Rive. Il pensiero corre, quindi, quasi automaticamente a luoghi del Nord Italia. Eppure anche al Sud, praticamente in ogni regione, esistono tantissime testimonianze di questa attività dell’uomo fatta di caparbia, di fatica spesso non ripagata, di fede profonda nelle proprie tradizioni. Di viticoltura eroica, anche se non censita o dichiarata tale, ce n’è davvero tanta, in luoghi in cui neppure ti aspetti che possa annidarsi un vigneto, che possa addirittura crescere la vite.

In Campania, sulle scoscese pendici a sud del cratere napoletano degli Astroni, dove i viticoltori, proprio alla base degli “spalatroni”, i pali cui si abbarbicano le viti di falanghina e piedirosso, scavano nella sabbia nuda dei fossi profondi, fovee di romana memoria, sperando di catturare e trattenere lì l’acqua piovana. O come, appena più in là – siamo in area flegrea – attorno al lago d’Averno tripudiano i nodosi ceppi di una falanghina di duecento anni, ancora produttiva. E, tra le viti secolari, come non pensare a quelle incredibili pergole di uva tintore a Tramonti che con la loro possenza troneggiano sulla Costiera amalfitana. Qui, l’altezza, le giaciture, il “triventum”, il vento che salta tra tre differenti direzioni, le escursioni termiche e l’ambiente pedoclimatico di origine vulcanica, tutto garantisce la conservazione di un patrimonio genetico senza uguali: le viti sono prefillosseriche, a piede franco. E in Costiera, ancora più vicino al mare, i vitigni che popolano le pergole delle affascinanti sottozone Furore, Amalfi e Ravello sono i rossi Aglianico e Per’ e palummo e i bianchi Fenile, Ripoli e Ginestra. Non si può poi non pensare ai vigneti di Biancolella che si insinuano in alto sul monte Epomeo ad Ischia, fra i boschi Frassitelli e Falanga, collegati alle cantine soltanto a mezzo di monorotaie.

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Sull’isola di Capri un po’ tutta la viticoltura è storica ed eroica al tempo stesso, con i minuscoli fazzoletti di terra affacciati sul panorama mozzafiato di Caposcuro, proprio sotto al Monte Solaro, o sui fianchi dell’antichissima scala greca che collega Anacapri a Marina Grande o, ancora all’interno dei giardini incantati di Villa Axel Munthe. Sempre in Campania un posto a sé meritano le architetture di vite maritata, le alberate aversane di uva Asprinio adagiate su pioppi alti anche più di dieci metri. La vendemmia, a mezzo di scale a pioli, è affidata a personale specializzato che certo non soffre di possibili capogiri, dei veri propri uomini-ragno. Questi festoni rappresentano importanti esempi di ampelografia archeologica, la testimonianza dell’incontro tra due culture viticole diverse, quasi opposte. Da sud provenivano i Greci, quelli che diffondevano il verbo dei coloni di Enotria, che solevano utilizzare l’oinotron, il tutore “morto”, il palo da offrire a sostegno della pianta rampicante. Costoro, risalendo la penisola, nei pressi del fiume Volturno, finirono per incontrare – o forse meglio “per scontrarsi”, visto le guerre che ne derivarono – gli Etruschi, un popolo proveniente dal nord, di diversa cultura viticola, adusa nello sfruttare come appoggio per la vite il tutore “vivo”, l’albero, appunto.

Passando ad altre regioni, in Molise esistono tanti lembi di viticoltura eroica: ne è prova il grande risultato riportato all’ultimo concorso “Mondial des Vins Extrême” organizzato dal Cervim e vinto da un vino a base di tintilia.

Con l’arrivo della fillossera, a partire dall’inizio del secolo scorso, i viticoltori in Puglia furono costretti a ricostruire tutti i vigneti, per cui oggi nella regione non sopravvivono esemplari antecedenti all’invasione. Esistono però, a ridosso di Manduria, tanti alberelli di primitivo ultraottantenni, ancora produttivi.

Armacìe, così vengono detti i muretti a secco che sorreggono i terrazzi della Costa Viola in Calabria, quel lembo di terra che va da Villa San Giovanni a Palmi, passando per Scilla, Seminara e Bagnara Calabra. Le uve coltivate, considerata la vicinanza con la dirimpettaia Sicilia, sono un mix di siciliane, calabresi e internazionali: Calabrese, Prunesta (v. Il Sommelier n.2/2020) e Gaglioppo tra i rossi, Greco e Chardonnay tra i bianchi.

In tema di viticoltura eroica, in Sicilia, non può mancare all’appello Bent-El Rhià, come in arabo è detta Pantelleria, la “figlia del vento”, dove lo Zabib-zibibbo viene coltivato da millenni sugli alberelli striscianti a non più di 50 cm dal suolo. Ma non c’è solo il Moscato di Alessandria a Pantelleria: in tutte le isole Eolie, anche a Salina, a Vulcano e persino nelle piccolissime Panarea e Filicudi fanno gran mostra di sé tanti piccoli vigneti di Malvasia, di Catarratto, di Nero d’Avola e persino di Sangiovese. E poi, per finire, sempre in Sicilia, come dimenticare l’Etna, con vigneti spesso oltre i mille metri di quota. Qui, nel regno del Nerello mascalese, qualche produttore, approfittando di un clima molto particolare, ha piantato – e con buoni risultati – Pinot nero e qualcuno addirittura… Gewürztraminer.

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