INTERVISTA ALL’ANTROPOLOGO ERNESTO DI RENZO SUI
SEGRETI DEL PAESAGGIO DEL VINO
Emanuele Cenghiaro
La bellezza, i colori, l’armonia, la storia, la cultura, la simbologia: sono mille le cose che attraggono in un paesaggio del vino. Una ricchezza che ha attirato l’attenzione anche dell’UNESCO
Prof. Di Renzo, che cos’è veramente un paesaggio?
Il paesaggio è una “categoria” della cultura. Non è la natura in sé, non è un semplice spazio fisico bensì il modo in cui l’uomo opera su di essi per trasformarli e piegarli al soddisfacimento dei suoi bisogni. È sempre l’esito di un rapporto dialettico che si viene a strutturare nel tempo.
È per questo che i paesaggi del vino destano interesse in sede Unesco?
Chiariamo che parlare di paesaggio in ambito Unesco significa far riferimento a una convenzione redatta nel 1972 volta alla salvaguardia e valorizzazione di tutto quello che è heritage, ossia il patrimonio mondiale dell’umanità. Questo si articola in un patrimonio culturale, in un patrimonio naturale e, dal 1992, anche nel “paesaggio culturale”, una categoria che implica il lavoro costante e combinato tra la natura e l’uomo, qualcosa cioè in cui la cultura è l’elemento “agente”, la natura è il “mezzo” e il paesaggio culturale è il “risultato”. A quest’ultimo appartengono anche i paesaggi del vino.
Facciamo alcuni esempi?
L’Unesco ne ha riconosciuti a oggi una decina, il primo è stato il paesaggio vitivinicolo di Saint-Émilion nella valle della Dordogna, nel 1999. In Italia vi sono due siti iscritti, il paesaggio vitivinicolo di Langhe Roero e Monferrato (2014) e quello delle Colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene (2019). C’è poi un terzo protagonista italiano da citare, la pratica agricola della vite ad alberello di Pantelleria, inserita però in un’altra lista, quella rappresentativa del “patrimonio culturale immateriale” dell’umanità, oggetto di un’altra convenzione, del 2003, che riguarda tutto ciò che rinvia interamente agli aspetti intangibili della cultura dell’uomo. A essere valorizzata in questo caso è la tecnica, l’insieme delle competenze materiali e immateriali che stanno dietro quel tipo di allevamento della vite.
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Tra i due “paesaggi culturali” del vino italiani che differenze nota?
Sono paesaggi molto diversi sia per gli aspetti più prettamente visivi e paesaggistici che per quelli della cultura materiale e delle tradizioni. Quello piemontese ha senza dubbio come caratteristica saliente l’armonia, la dolcezza e la continuità visiva che si conforma all’immagine ideale di un paesaggio rurale “scenico”, alludente al pittoresco e in grado di evocare serenità, quiete ed equilibrio. Il paesaggio delle Colline del Prosecco è più d’impatto, scattoso, discontinuo, irregolare, di aspetto mosaicato e fortemente parcellizzato. Dà, cioè, più l’idea della fatica ardua dell’uomo per strappare alla natura spazi vitali per la sua esistenza. Se fossimo dinanzi a due dipinti, direi che del primo ci colpirebbe la visione prospettica, d’insieme, mentre dell’altro le pennellate forti e decise quasi da opera impressionistica.
Perché nel mondo del vino l’interazione uomo-paesaggio è così forte?
Perché la viticoltura non è una pratica agricola come le altre. Sia perché “alleva” e non “coltiva”, sia perché necessita di una lunga durata, di un “investimento in storia”: essere viticoltore significa ingaggiarsi in un rapporto con il territorio il cui decorso può andare anche oltre la vita dell’individuo stesso, e che richiede lo strutturarsi di relazioni con i luoghi assai complete e coinvolgenti e di un notevole bagaglio culturale e addirittura spirituale. Riguarda cioè perfino il mondo delle credenze, dei valori, della religione: la vitivinicoltura è cultura liquida, è il tratto dell’attività agricola su cui l’uomo ha provveduto ad investire di più in termini di valori simbolici.
Parliamo di paesaggio del vino e di turismo?
Il vino può avere un ruolo importante nella progettazione e valorizzazione turistica dei territori, per il suo portato storico e immaginativo ma anche per ciò che può dare alle persone in termini di fruibilità completa dei luoghi. L’enoturismo è infatti un comparto del turismo esperienziale promissorio di grandi possibilità di sviluppo, perché si lega a un’esperienza sensoriale multimodale, in grado di offrire al turista livelli di soddisfacimento che coinvolgono la vista ma anche le emozioni, l’udito, l’olfatto – l’odore dei mosti e delle cantine – oltre alla sensazione più strettamente gustativa.
Vi sono paesaggi che attraggono turisti anche solo giocando sui colori. Il vino può farlo?
È vero, i cromatismi esercitano un’attrazione visiva molto forte. Credo che un ambito ancora poco valorizzato sia, per il vino, quello del foliage: penso agli spettacolari momenti dopo la vendemmia quando i vigneti virano verso il giallo e poi il rosso. Non mi pare che il mondo del vino abbia ancora pensato a valorizzarlo come prodotto turistico, naturalmente da abbinarsi all’esperienza del gustare, del conoscere e, perché no, del fare.
[su_box title=”Chi è Ernesto Di Renzo?” style=”noise” box_color=”#5e0230″ title_color=”#fff”]
Ernesto Di Renzo insegna Antropologia dei patrimoni culturali e gastronomici, Antropologia del turismo, Antropologia del gusto all’Università di Roma Tor Vergata, dove è anche coordinatore didattico del master in “Cultura alimentare e delle tradizioni enogastronomiche”. In qualità di esperto interviene a programmi radiotelevisivi (Rai1,
Rai3, Rai Italia, Rai news24, tv2000) su temi riguardanti le pratiche sociali e culturali del mangiare contemporaneo. Nel 2018 è stato insignito del premio di miglior divulgatore della cultura alimentare dall’Associazione della Stampa Estera in Italia, e del premio nazionale “G. Merli” per l’Ambiente. [/su_box]
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