Daniele Ognibene
Negli ultimi anni si è assistito ad una vera e propria gara a braccio di ferro tra i due più noti contenitori utilizzati per la vinificazione: da una parte la botte di legno, dall’altra l’anfora, tornata in auge a seguito dello straordinario lavoro di diversi vignaioli ed enologi che con grande abilità hanno ridato vita ad un contenitore uscito – benché non totalmente – di scena. La disfida, tuttavia, non si è limitata solo al campo enologico, ma spesso si è trasferita verso lidi di natura ideologica, nei quali l’utilizzo dell’anfora è stato dipinto come una sorta di ritorno alle “origini”, ad un passato irrimediabilmente perduto dall’uomo contemporaneo.
Eppure, l’anfora non è sparita per caso o per via di un complotto dell’industria moderna, ma perché venne superata drasticamente dalle potenzialità che si celavano dietro al contenitore che tutti conosciamo: la botte di legno. Questo admirable instrument, come venne definito da uno dei più importanti storici francesi del vino, Yves Renouard, cominciò ad essere utilizzato nelle regioni gallo-romane d’Oltralpe già dal II secolo d.C. e divenne alla fine del XIV secolo il recipiente standard con cui trasportare il vino e vinificare le uve in tutta Europa.
Le giare in terracotta non scomparvero del tutto, specialmente nell’area mediterranea, ma sicuramente, per i viaggi su larga scala, la botte era la soluzione migliore e di certo non per ragioni di natura gustativa, bensì logistica ed economica. All’alba del XV secolo la rivoluzione commerciale, avviata sin dalla seconda metà del XIII, era giunta al suo apogeo e aveva sancito la nascita della commercializzazione di massa di molti beni, specialmente quelli pesanti come il vino (le cosiddette merci grosse). Era finalmente possibile, per la prima volta, inviarlo in grandi quantità, attraverso lunghe tratte marittime e terrestri da una parte all’altra del mondo conosciuto. L’anfora, in questo scenario, non era certamente un contenitore adatto: era fragile, ingombrante e, poiché necessitava di almeno due persone per le operazioni di carico e scarico, non poteva essere troppo pesante e dunque aveva una capienza molto bassa.
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Il barile, invece, essendo più maneggevole, poteva essere sollevato senza troppi pericoli dagli argani a ruota e conteneva centinaia di litri. In un certo senso, si può dire che fu proprio grazie alla botte che i vini riuscirono a viaggiare sulla lunga distanza in maniera costante ed efficiente per farsi conoscere, acquistare fama e porre le basi dell’attuale mondo enologico. La scelta della terracotta o del legno oggi può fortunatamente non basarsi su questioni di natura logistica, ma solo – ed è questo il bello – su motivazioni organolettiche. L’antichità di una procedura rispetto ad un’altra non può essere un motivo di prevaricazione, ma semmai di preziosa diversificazione, altrimenti perché fermarsi alle anfore e non retrocedere oltre? In una recente pubblicazione sulla storia del cuoio, è stato proposto un pionieristico e divertente articolo sulla storia delle wineskins. La parola greca ἀσκός forse non ci è molto familiare: è il sacco di pelle (l’otre) a cui si fa riferimento nel Vangelo di Marco, quando si dice: “Vino nuovo in otri nuovi”. Forse che sia questa la soluzione per tornare all’età dell’oro? Non saprei, ma credo che più si indaghi la storia del vino, assaporandone la complicata eterogeneità, più si capisca che la diversità arricchisce e unifica, anziché dividere.
Bibliografia di riferimento
B. Wills, A. Watts, Why wineskins? The exploration of a relationship between wine and
skin containers, in S. Harris, A.J.Veldeijer, Why Leather? The material and cultural dimension of leather, Sideston press, Leiden, 2014, pp.123-134. Y. Renouard, Le grand commerce du vin au Moyen Âge, in Études d’histoire médiévale, I, Parigi, 1968, pp. 235-248.
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