UNA VITICOLTURA UNICA, COSTOSA, DA VALORIZZARE QUELLA EROICA

PAROLA DI DIEGO TOMASI PRESIDENTE
DEL COMITATO SCIENTIFICO DEL CERVIM

Emanuele Cenghiaro

La viticoltura di montagna è sempre più sotto i riflettori. Ed è, oggi, sinonimo di qualità e di vitigni autoctoni. Quale futuro può avere? Ne parliamo con Diego Tomasi, Presidente del Comitato scientifico del Cervim.

 

Quali prospettive vede per i viticoltori montani?
Allo stato attuale non sono per nulla rosee. Questo perché la viticoltura eroica ha costi di produzione dalle tre alle cinque volte superiori a quella di pianura: si pensi alle minori rese, all’enorme investimento in manodopera, ai costi di manutenzione dei vigneti. Tutti ne parlano, la elogiano e ne riconoscono i meriti qualitativi, ma sono costi che il consumatore e il mercato, nel momento in cui devono spendere per acquistare una bottiglia, sono poco disposti ad accollarsi.

Cosa si può fare per contenere i costi?
Non è facile: in questo momento la viticoltura eroica dovrebbe addirittura aumentarli per poter sopportare gli investimenti legati alla sostenibilità. Ad esempio, l’uso del diserbante, una pratica oggi vietata in montagna o comunque non ben accetta: rinunciarvi implica lo sfalcio a mano, un costo aggiuntivo che non sempre viene capito dal consumatore. Un altro grande problema che può mettere a rischio la stessa sopravvivenza dell’agricoltura di montagna è la difesa dalle malattie, molto più difficile e gravosa rispetto alla pianura.


Eppure questi luoghi sono spesso i più propensi a scelte di sostenibilità. Perché?
Sono ambienti dove a volte la scelta della sostenibilità è obbligata, perché non potendo usare le macchine si deve intervenire manualmente. Ma la scelta di produrre vino “sostenibile” è anche perché sono ambienti che lo permettono, i suoli non sono mai molto vigorosi, le piante sono meno produttive e di conseguenza meno soggette agli attacchi di funghi e parassiti. Ecco che l’agricoltura sostenibile diventa più applicabile, anche per ragioni di tradizione, e il vino ci guadagna soprattutto nei valori qualitativi e salutistici. Il viticoltore ha poi il grande compito di conservare il paesaggio, responsabilità gravosa perché ancora una volta tutto deve essere fatto a mano.

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Incidono anche i cambiamenti climatici?
Oggi ci stiamo veramente confrontando con la nuova fase climatica, non tanto nell’aumento di temperatura come un tempo pensavamo, ma nella grande variabilità delle annate. Rispetto alla pianura, in montagna essa è più smorzata, le temperature sono aumentate meno e comunque restano nei valori ottimali per la vite, le precipitazioni continuano a essere ben distribuite. L’alta collina e la montagna possono diventare centro di interesse perché permettono di ottenere valori qualitativi che in pianura si ottengono più a fatica e con minor ripetibilità negli anni, e possono quindi mettere a disposizione nuove aree per una viticoltura di pregio. Oggi si recuperano aree abbandonate e vi si fa una viticoltura rispettosa dell’ambiente.

Lei ha accennato ai vitigni autoctoni: la montagna ne è un serbatoio…
Sono un valore, perché sono varietà che hanno saputo adattarsi a certi luoghi. È impensabile coltivare in montagna varietà che nel corso dei secoli non si siano selezionate proprio per quell’ambiente: oggi si usa un nuovo termine, embodiment, l’incorporazione dei caratteri che rendono adatti a un determinato ambiente. Ritengo però che dovremmo puntare più a salvaguardare le varietà autoctone che attualmente coltiviamo e ci danno soddisfazioni che ricercare ulteriori varietà, o tentare di ridare nuova fama a vitigni che sono stati accantonati per qualche evidente criticità.

E le nuove varietà resistenti, lei come le vede?
Si è ipotizzato che l’impiego delle varietà resistenti potesse dare un futuro a questa viticoltura, in quanto teoricamente hanno bisogno di pochissimi trattamenti. Ma se noi togliamo le varietà autoctone dagli ambienti montani, togliamo pure una parte dell’interesse verso di essi. Allevare varietà nuove, poco conosciute e cercate, e che al momento attuale non hanno lo stesso livello qualitativo, secondo me non è la strada vincente per rilanciare la viticoltura di montagna; tradizione, cultura, qualità organolettica, valore aggiunto, sono le parole chiave dei vini di montagna.

Cos’altro si può fare?
Bisogna che la viticoltura di montagna venga fatta conoscere e arricchita di suoi valori, non solo quelli della fatica, di un’agricoltura chiamata addirittura eroica; parlo dei valori portati dal paesaggio, dalla storia, dai vitigni autoctoni, dai suoli totalmente diversi da quelli di pianura, dalla salubrità degli ambienti… La viticoltura di montagna per emergere deve poter poi contare su aziende, per così dire, multifunzionali: che non offrano solo il vino, ma pacchetti di altri servizi oggi molto richiesti, ad esempio l’ospitalità, l’abbinamento vino cibo, le passeggiate, i panorami indimenticabili, ritemprare lo spirito. Però l’elemento fondamentale sui cui giocare è il paesaggio: quelli della viticoltura di montagna sono tra i più belli in Italia. Paesaggi unici dove natura e uomo si sono incontrati e integrati perfettamente, scenari culturali e di emozione, da cui non ci si può congedare senza portarsene via un pezzetto: una bottiglia.

 

[su_box title=”Chi è Diego Tomasi?” style=”noise” box_color=”#5e0230″ title_color=”#fff”] Agronomo, è ricercatore del CREA-VE di Conegliano e Presidente del Comitato scientifico del CERVIM. Dal 2004 è accademico dell’Accademia Italiana della Vite e del Vino. Autore di numerose pubblicazioni scientifiche e monografie, è esperto di questioni riguardanti il rapporto tra la vite e l’ambiente.[/su_box]

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