ISCHIA E CAPRI, TERROIR VISTA MARE

Annibale Discepolo

In vino veritas, d’accordo, ma dov’è in fondo la verità del vino? Basta girarsi e guardarsi intorno, sì perché la risposta sta lungo tutto lo Stivale, letteralmente scrigno enologico e vitivinicolo prezioso, unico nel cosmo enoico internazionale. L’Italia, da nord a sud e con le sue isole, con tutte le sue sfaccettature, differenze ampelografiche, è un’unica vigna percorsa da mille, differenti emozioni che intrigano, sorprendono, affascinano, difficilmente deludono papille gustative e palati. Un fiume in piena di emozioni suadenti che scorrono parallelamente grazie ad un fil rouge che si alterna ad un blanc, in un saliscendi, un caleidoscopio di vibrazioni, complice un paesaggio che muta, poi si somiglia, poi di nuovo cambia.

Eccome cambia, diventando ancor di più dolce, piacevole e arrendevole allorché il naufragio di sensi diventa fedele, irrinunciabile compagno d’avventura nello sbarco alla scoperta e conquista delle vigne di mare, quelle di Capri e Ischia, regine del Golfo di Napoli, la Sardegna, astronave del Mar Tirreno che a nord geograficamente corteggia la francese Corsica e a sud ammicca alla Sicilia. Ad Ischia, sull’isola Verde l’antica cultura della vite che la leggenda vuole importata dagli Eubei dalla Grecia (singolare il ritrovamento a Lacco Ameno della coppa di Nestore), duetta con la coltura della medesima.

Il cosiddetto vino di casa oggi è lo specchio dell’evoluzione grazie ad aziende importanti, di vecchia tradizione, come pure cantine medio piccole che ne hanno fatto la forza di un’economia che cammina a pari passo con i tempi, avendo intelligentemente e pure necessariamente intercettato, messo in campo ed a reddito, i frutti di un tesoro quale lo studio ampelografico che ha in un certo qual modo resuscitato e recuperato vitigni autoctoni (nel 1867 ve n’erano più di 15) come lo storico Biancolella e il Forastera, entrambi a bacca bianca con i quali completano la batteria dei bianchi, Arilla e S. Lunardo. C’è poi l’altrettanto vino noto, ma a bacca rossa, il Piedirosso, detto anche Per’ ‘e palummo, così chiamato per la particolarità della pigna che somiglia alle zampette d’un piccione; la Guarnaccia, il Cannamelu e il Livella. Doc ed Igt che diventano preziosi, se si considera il valore aggiunto dato dalla fatica dell’uomo nella lavorazione e nella raccolta di sovente a mano delle uve; una viticoltura indubbiamente eroica per la posizione abbarbicata delle vigne “a terrazzo”.

Il progresso, che non va inteso come tradimento delle tradizioni ma semplicemente per l’utilità e la maggior facilità delle tecniche di allevamento, vede oggi contrapposto al concetto di maggior resa, attraverso la vecchia coltivazione in altezza a sistema etrusco tipico del versante nord est, la più moderna e pratica forma più bassa a Guyot o sistema greco che esalta il prodotto in termini di  qualità, regalando vini di alta gradazione e grande sapidità, in cui gioca un ruolo intrigante la conformazione geologica di base di natura vulcanica. Da Ischia a quella Capri, capriccio degli dei. L’Isola Azzurra che è un prezioso, ineguagliabile paradiso terrestre, ha brindato alla Denominazione Capri Doc nel 1977. Solo due però i vini prodotti qui, uno di uvaggio bianco, l’altro rosso, contraddistinguono la Doc che il fascino dell’isola cara agli imperatori Augusto e Tiberio, meta di un turismo d’élite, da sempre in pratica frequentata dal gotha di intellettuali, scrittori, attori, esponenti del jet set internazionale che pompa economia, rendono questi vini decisamente più bevibili ed amabili.

La nuance del Capri Bianco DOC, ammicca ad un blend di Greco, Falanghina e Biancolella, mentre il Capri Rosso DOC, in sostanza quasi in purezza, dovendo utilizzare per disciplinare ben l’80% di Piedirosso, si sposa con altri vitigni a bacca nera sempre campani, che devono però sfuggire dalla nota aromatica che contaminerebbe inevitabilmente nel gusto, il vino. Che su quest’isola, complice l’essenza e l’esercitazione del bello in tutte le sue forme naturali ed artistiche, inevitabilmente diventa divino.

Sicilia, Arca divina

Irripetibile blend di storia, arte, cultura, natura. Arca, quanto astronave moderna con a bordo diversità sotto il profilo pedoclimatico, di caratteristiche ampelografiche; terroir che flirtano col mare e la montagna, temperature con sbalzi termici incredibili, i suoli vulcanici cui s’aggrappano i vigneti. È la Sicilia, culla di varie civiltà: fenicia, greca, romana, musulmana, normanna, francese, aragonese, che hanno piantato radici differenti per una viticoltura che ha lasciato eredità importanti nella regione vitivinicola più estesa d’Italia, varia, interessante, protagonista del “Miracolo siciliano”. Trinacria, segno divino e di vino per i tre areali di produzione: il capoluogo Trapani, i terroir dell’Etna col suo rosso e Siracusa. Imperano gli autoctoni in livrea bianca: il re Catarratto, dopo il Trebbiano, la seconda varietà più diffusa, seguito da Inzolia e Grillo, grande interesse enologico ed entrambi anime del Marsala. Dall’isola madre alle isole: Pantelleria per lo Zibibbo, alle Eolie per la Malvasia di Lipari. Etna in livrea di super bianco per il Carricante che se coccolato, esprime vini d’inaspettata longevità, paragonabili ai Riesling d’Alsazia. Nel campo
dei rossi, Sicilia per tipicità è Nero d’Avola re nel siracusano e agrigentino per alcune tra le più alte sinfonie. Lode al Perricone, antico e raro autoctono che merita attenzione, quando rientra in importanti Doc. Figlio della tenacia di radici che affondano lungo i pendii dell’Etna, il Nerello Mascalese, vero camaleonte in fatto di resa degustativa a seconda del versante di allevamento. Palato al Frappato di Vittoria: vinificato in purezza, regala vini profumati, tannini mitigati e buona acidità, passe-partout col 40% per impreziosire, con merito, il Nero d’Avola.