UN VIAGGIO TRA ARTE, VINO E POESIA

INTERVISTA A PAOLO MENON

Laura Grossi

Lei è un artista a tutto tondo – giornalista, scrittore, poeta, art director, graphic designer, editore di riviste equestri, scultore – una figura eclettica nel campo delle arti. Come si definirebbe?
Non saprei: un viandante della comunicazione? Forse. Di certo un viandante attratto dalla bellezza spesso mimetizzata nei particolari che ad altri, pur percorrendo insieme lo stesso sentiero, potrebbero sfuggire. Un sentiero contrassegnato di mestieri, quelli che lei mi sta ricordando, che ritmano il mio tempo, che non avrei fatto se non riconoscessi di aver ricevuto alcuni inestimabili talenti dalla vita: pura energia creativa che orbita sugli obiettivi progettuali.

E tra gli obiettivi legati al vino che hanno assunto una centralità nella sua opera: com’è nata la passione per il mondo del vino? Che cos’è il vino per lei?
Beh, questa è una di quelle domande cui risponderei volentieri centellinando in compagnia uno Château Pétrus! A proposito, comincio col dirle che sorseggiavo vino sin da bambino – col cucchiaino, s’intende, e tanti quanti erano miei anni – grazie a mio nonno paterno che vinificava, tra gli altri uvaggi, il “fragolino” di cui vedevo crescere e maturare i grappoli dagli acini tondi e neri, nella campagna Polesana dove sono nato. Pertanto, aggiungo, che il vino è il fil rouge con cui da sempre imbastisco immagini e parole, mai scucite dal tessuto giornalistico. Sì, direi che il vino nella sua aura letteraria e mitologica, filosofica e religiosa è – ab origine – fonte di ispirazione artistica.

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Lei è un collezionista di bottiglie di vino siglate da grandi artisti. Qual è la bottiglia con la quale ha aperto la sua collezione? Quante etichette ne fanno
parte oggi?
…in principio c’era Renato Guttuso con il suo Efebo di Selinunte, il bronzo ritrovato sulla costa sud-occidentale della Sicilia, dipinto sull’etichetta di un Libecchio Bianco 1983 del Barone di Turolifi, che mi fu regalato: una rivelazione! Per la prima volta intuii che bellezza e freschezza, in simbiosi, avrebbero potuto accompagnare un vino che non conoscevo poiché, assaggiandolo, esprimeva le stesse sensazioni piacevoli suggerite in etichetta. Col tempo il mio interesse si tramutò nella collezione di circa un migliaio di bottiglie di vini italiani con etichette disegnate dai più grandi artisti viventi; etichette di vini prodotti in quel fortunato rinascimento enoico che diede il meglio di sé sul finire degli anni Settanta del secolo scorso sino al Duemila, a suggello di un Made in Italy di cui essere fieri…

… una collezione che confluì successivamente in un progetto editoriale, è così?
Sì, quella collezione, che rigorosamente commentai sia dal punto di vista enoico sia artistico fu pubblicata su due volumi (2003 e 2004) dal Centro Diffusione Arte di Milano con il titolo «Per vino e per segno – Le più belle etichette d’autore vestono il vino italiano». E fu un successo editoriale e di critica inatteso: oltre settanta testate nazionali, tra cui radio e televisioni, ne apprezzarono i contenuti e le scelte estetiche.

Quando, secondo lei, un’etichetta d’autore si può considerare «opera d’arte»?
Provo a sintetizzare così: l’opera d’arte, anche se minuscola e applicata alla bottiglia di un vino, deve essere unica – tutt’al più in multipli numerati – e firmata dall’autore. Di contro, qualsiasi opera pittorica o sculturale può essere riprodotta – all’infinito se occorresse – con qualsiasi mezzo di stampa anche tridimensionale su un’etichetta, ma così facendo l’opera d’arte assume il mero valore di una comune «riproduzione». Spero di essere stato chiaro, anche se la dottrina sull’argomento ci intratterrebbe per ore.

Che consigli darebbe a un produttore che volesse migliorare la veste non solo grafica delle proprie bottiglie?
Che l’abito non fa il monaco, che la qualità indiscutibile del vino deve superare o quantomeno essere paritetica all’immagine che lo racconta in etichetta. Ma l’imperativo è e sarà sempre soltanto uno: eleganza! Eleganza nell’equilibrio culturale tra contenuto e seduzione visiva di un packaging contemporaneo.

Il vino rappresenta dunque un patrimonio culturale dall’importante ruolo seduttivo, così come il rapporto letterario con il mito bacchico che lei esprime in poesia: da quanto tempo si dedica a questo genere letterario? E, infine, può anticiparci qualche progetto, etichette vinarie comprese?
Parto dall’etichetta che ho firmato per il mitico Vino della Pace 2017, Cantina Produttori Cormòns, con la breve lirica «Prosit» che fiancheggia l’illustrazione dello stilista d’alta moda Roberto Cappucci. Sempre per la poesia, sto ultimando la mia quarta silloge; le precedenti «Della Vite il pianto», «Pietre d’inciampo» (Bellavite Editore) e «Scena aperta» (Simonelli Editore) sono risultate vincitrici d’importanti Premi letterari di cui vado fiero. Quanto al mito bacchico, questi trova ampio spazio nel primo volume di poesie scritte tra il 1967 e il 2017, unitamente a riflessioni su vino e mito, donne e moda, cavalli arabi e scultura su dionisiaco e sacro: articoli scritti per alcuni periodici nazionali. Certamente ora dedico alla scrittura molto più tempo rispetto al passato trascorso a fare giornali; diciamo che finalmente scrivo per piacer mio e nei tempi più congeniali. In progetto c’è poi la partecipazione come scultore alla prossima mostra de La Permanente di Milano di cui ho l’onore di essere membro, e altro ancora che a causa del coronavirus è stato sospeso. A presto, dunque! Prima che l’energia creativa diventi nostalgia.

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