DAL CILE ALL’AUSTRALIA, I VINI DEL NUOVO MONDO RISCOPRONO FRUTTA E FRESCHEZZA

Lara Loreti

C’è stato un tempo in cui nell’immaginario collettivo parlare di “vini del Nuovo mondo” voleva dire riferirsi a calici un po’ piacioni, sontuosi, dalle marcate note di legno. In una parola, “parkeriani”, facendo riferimento al famoso critico enologico statunitense Robert Parker, oggi 72enne, che ha rivoluzionato in senso democratico l’arte della degustazione, orientando il gusto verso vini a base di uve internazionali, affinati nel legno nuovo, “docili” al palato. Uno stile in parte in contrapposizione con i “vini del Vecchio mondo”, decisamente più legati al territorio e forti di tradizioni secolari. Oggi le cose sono cambiate. Da 5-10 anni a questa parte, stiamo assistendo a una globalizzazione del gusto e delle esperienze.  La linea di demarcazione tra i due stili è molto più sfumata. Saperi e sapori si intrecciano in una trama dalle maglie larghe, in cui è facile e stimolante inserirsi: bastano una valigia, un cavatappi e una mente aperta.

Regola numero uno: non cadere nella trappola di preconcetti semplicistici. Il primo da sfatare è che nel Nuovo mondo – quindi nelle terre esplorate a partire dai viaggi di Cristoforo Colombo, a cui si aggiunge l’Africa – la viticoltura sia una scoperta recente. Lo sottolinea Attilio Pagli, enologo di fama internazionale, fondatore del Gruppo Matura, nel curriculum una vasta esperienza in America Latina e non solo: “Spesso si sente dire che Paesi come l’Argentina, il Cile o l’Australia siano arrivati all’enologia negli ultimi anni, ma questo è un falso storico. Sono terre che hanno alle spalle tradizioni ultracentenarie, ma che a livello internazionale si sono espresse più tardi. La vite in America ce l’hanno portata gli europei già nella seconda metà del Quattrocento”.

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Ma quali sono oggi le differenze tra i due stili di viticoltura?
“Nel Nuovo mondo è meno sentito il legame alle tradizioni, produttori e winemaker sono più liberi, meno vincolati alle regole; noi europei ci portiamo dietro concetti e metodi tramandati da generazioni – spiega Pagli – non mancano però eccezioni: ad esempio, nel Sud del Cile ci sono aree dove la tradizione vitivinicola è fortissima, e non riesci a fargli cambiare una virgola!”. Un altro aspetto da considerare è quello commerciale.

“Nel Nuovo mondo, i viticoltori sono in generale più legati alle esigenze del mercato: se in quel momento prevale la richiesta di un vino con maggior colore o affinato nel legno più a lungo, ci si adegua. Va detto però negli ultimi anni in America Latina e in Australia si stano portando avanti studi geologici profondi, dividendo i vigneti in funzione delle proprie peculiarità. L’obiettivo è ricercare il particolare pezzettino di terra da cui tirar fuori determinate caratteristiche dell’uva. E così si fa selezione”.

La differenza più marcata tra Vecchio e Nuovo mondo resta legata soprattutto al clima: in Argentina, Cile, California e Australia il caldo fa sì che le uve maturino più in fretta, il che si traduce in vini più morbidi. Tuttavia, spiega l’esperto, in questi Paesi si sta lavorando per contrastare l’iper-maturazione attraverso vendemmie precoci, tecniche per ombreggiare la vigna e selezioni di terroir più freschi: non a caso sono sempre più numerosi i produttori che investono in altitudine sulle Ande, più interessati alla qualità che ai grandi numeri. Una rivoluzione che si sente nel calice, come specifica Pagli: “Oggi i vini del Nuovo mondo sono molto più “europei”, si cercano la frutta, la freschezza, e, negli affinamenti, al legno si preferiscono cemento, anfore e acciaio. Quella piacevolezza grassa che, negli anni 90, quando esplose il fenomeno della barrique, sembrava vincente, è stata sostituita dall’agilità: i vini che si vendono di più nel mondo sono quelli più soavi, con poco colore, elevata acidità, pochissimo o zero legno, senza zuccheri, macerati a lungo. Insomma, a prevalere sono i vini testimoni dei propri territori, senza troppe manipolazioni”.


Protagonisti di questa rivoluzione sono critici e sommelier. “Da qualche anno non c’è più il “parkerismo”, gli stessi critici che scrivono per la testata di Parker, come ad esempio Luis Gutiérrez, sono molto più attenti ai vini particolari, freschi e poco sofisticati – nota Pagli – Caratteristiche prima ignorate. E in quest’ottica, il sommelier è strategico: in quanto influencer del gusto, è colui che al ristorante o in enoteca consiglia il cliente che a lui/lei si affida nelle scelte”. Oggi chi ha voglia di bere un calice “emergente” ha un’ampia scelta. “Partirei dai Paesi balcanici e dalla Georgia, dove la vite è nata – fa notare Pagli – e dove sta risorgendo. Mi muoverei poi verso ovest, dal Nord dell’Iran al Libano, dal Marocco alla Tunisia dove si possono fare intriganti scoperte.

Quanto al Sudafrica, Chenin Blanc e Pinotage avrebbero un grande potenziale, ma quell’area negli ultimi anni è rimasta un po’ in ombra”. Restando nel Nuovo mondo, le zone più interessanti si trovano nel Sud della California, intorno a Santa Barbara; da provare i Pinot Neri dell’Oregon. Ottimi i bianchi del Canada. Vorrei annoverare l’Uruguay, dove stanno facendo cose egregie con un vitigno non facile da gestire come il Tannat. In Cile, oltre allo storico Cabernet Sauvignon, da tenere d’occhio le zone estreme, sia a Sud sia a Nord: nella valle del Itata ci sono vigneti di Cinsault ad alberello fantastici, di 150 anni, coltivati senza irrigazione, mentre nella Valle del Limarì troviamo Sauvignon e Pinot Neri fantastici. Tutte zone che stanno crescendo tanto proprio grazie allo studio del terroir e a tanti piccoli produttori locali, oltre che a investitori stranieri, che hanno voglia di scoprire le potenzialità dei suoli”. L’ennesima prova che uomo e natura, insieme, possono fare grandi cose.

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