LA CANTINA VERONELLI INTERVISTA A GIAN ARTURO ROTA

Lara Loreti

Il buio oltre la soglia. La giusta umidità, l’esposizione a nord. La temperatura fresca e costante. Il ventre di Bergamo alta restituisce vita anche laddove le bottiglie, adagiate nelle celle di cemento, hanno 60 e più anni. È il paradiso di tannini ed emozioni della cantina di Luigi Veronelli: 350 metri quadri scavati sottoterra con l’esplosivo, per 35mila esemplari. Un capolavoro, che il grande enogastronomo ha realizzato in decenni di esperienza, oggi pronto a spargere la sua energia tra le fila della Fisar. Una parte importante di quei gioielli – circa 1500 bottiglie – sono state donate dalla famiglia Veronelli alla Federazione, e saranno oggetto di ricerche, in armonia con gli insegnamenti del maestro lombardo. Un regalo prezioso, orchestrato da Gian Arturo Rota, curatore del patrimonio di Veronelli. È lo stesso Rota – una vita al fianco del pedagogo – a raccontarci la genesi dell’iniziativa.

Com’è nata la cantina di Veronelli?
Luigi ha costruito la sua cantina con un lavoro lungo e faticoso. Quando da Milano, la sua città, s’è trasferito a Bergamo, negli anni in cui scriveva per Bolaffi i Cataloghi dei vini del mondo, era già un professionista riconosciuto. Aveva fatto viaggi e studi in tutto il mondo. Nel frattempo raccoglieva le bottiglie, frutto di acquisti o doni mirati all’assaggio. Il numero cresceva, quindi Luigi cercò una casa in collina che avesse una cantina ampia. Così facendo ha messo su un poderoso patrimonio che nel suo picco ha sfiorato i 70mila campioni, italiani ma anche stranieri. Lui diceva che ogni bottiglia era a sé stante e si considerava un amante del vino, non un collezionatore. Oggi la famiglia ha piacere a conservare le bottiglie per il valore affettivo, ma è obiettivo condiviso il volerle valorizzare.

In che modo?
Tra le possibilità di utilizzo delle bottiglie è venuta fuori la donazione a scopi didattici. E tramite il contatto con la delegata di Fisar Bologna Raffaella Melotti, con cui ho curato delle serate su Veronelli, abbiamo scelto la Federazione. È stato un gran piacere per me e per le figlie di Luigi, Benedetta, Chiara e Lucia, dare valore aggiunto a parte della cantina attraverso Fisar. Ho selezionato 1500 bottiglie, dagli anni ‘60 ai ‘90, attingendo da tutta Italia nel modo più equo possibile. E voglio ringraziare il presidente Luigi Terzago per aver compreso il senso profondo dell’iniziativa.

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Qual è secondo lei il modo migliore di valorizzare questo dono?
L’idea è organizzare insieme delle iniziative dedicate a Luigi e i suoi insegnamenti, lavorando su prodotti che in gran parte non sono reperibili sul mercato e su cui si possono fare studi sulla conservabilità del vino. In Italia c’è la tendenza ad aggredire il mercato per scopi remunerativi. Luigi è riuscito a portare nel mondo contadino una presa di coscienza della qualità e del valore della propria storia. Aveva compreso che c’era un sommerso favoloso e che il mito della Francia non era così distante. Ha creato le condizioni per una nuova economia e un atteggiamento diverso nel bere e mangiare.  Queste bottiglie sono lo strumento per scoprire che il vino italiano può avere un lungo invecchiamento. Non solo Barolo e Brunello, ma anche altri prodotti, interessanti da studiare. Anche un esemplare degli anni ’60 può essere vivo.

Quali iniziative si possono fare per tramandare l’opera di Veronelli?
In primis le degustazioni, con taglio professionale e divulgativo, poi un percorso di formazione sulla sua opera attraverso corsi, serate, occasioni ufficiali all’interno di Fisar ma anche in altre sedi, per far conoscere all’esterno questo patrimonio. La volontà di collaborare è totale, e sono dell’idea che mettendo insieme le forze potremo fare belle cose”.

Oltre a tecnica e conoscenza, quanto della sensibilità di Veronelli il sommelier di oggi è riuscito ad acquisire?
Già negli anni 60, Luigi diceva che il sommelier non è solo un freddo consigliere o un asettico tecnico fornitore di informazioni, ma deve saper trasmettere ai clienti il proprio patrimonio culturale non per condizionare le scelte, ma per orientarle attraverso il racconto.

Qual è l’insegnamento più importante che le ha lasciato?
Mi ha fatto capire che le realtà e le relazioni possono essere guardate da più punti di vista. E ciò ti aiuta a non essere arrogante, ti predispone all’ascolto. Viaggiando con lui, ho ammirato come si poneva verso l’altro.

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